La Festa di
San Giovanni a Torino
L’Associassion Piemontèisa ,
per difendere e divulgare le tradizioni popolari, ha apertamente
richiesto nel
1971 agli Enti Pubblici locali quale il Comune, la Provincia
e la Regione, l’organizzazione di interpretazioni
storiche per festeggiare il Santo Patrono di Torino. Sono
stati riproposti i cortei storici in costume
tradizionale, l’accensione del "farò", l’offerta dei ceri in
Duomo da parte degli sposi e la consegna della
"Carità" alle Autorità civili, militari e religiose.
Notizie storiche
LE VENTIQUATTR’ORE DI SAN GIOVANNI A TORINO
L’elezione di San Giovanni Battista a Patrono della Città di
Torino risale a tempi antichissimi :
nell’anno 602 Agilulfo, duca di Torino, che fra le città del
Regno Longobardo era una delle principali, aveva
fondato con la Regina Teodolinda , la chiesa in onore del
Santo Precursore, avendolo scelto a protettore
della Lombardia.
La celebrazione
della festa di San Giovanni a Torino, risale al secolo XIII,
con la processione dei ceri: la
festa è antica quanto quella di Firenze, che la celebra con
il carro e la colomba.
A Torino nel passato, fu il San Giovanni, la festa più
popolare dell’anno. Allora Torino era una città non più
grossa che all’epoca romana: le mura che la racchiudevano,
partivano da Piazza Castello, dove ora c’è
Palazzo Madama, ed arrivavano in via Accademia delle Scienze,
fino ad incrociare via Maria Vittoria,
proseguendo per via Santa Teresa, Piazza Solferino, via
Cernaia, fino all’angolo con corso Siccardi; poi, per
via della Consolata, arrivando al Santuario per via Giulio,
alla torre dei giardini Reali, fino a chiudere l’angolo
con Piazza Castello.
La città era stata in possesso di Adelaide, marchesa d’Italia
e contessa di Torino, e che, per effetto del suo
matrimonio con Oddone, figlio di Umberto Biancamano, è
passata ai Savoia, e nel 1200, ha avuto una storia
piuttosto tormentata, avendo concentrato il suo orientamento
politico tutte le influenze del secolo: quella del
vescovo di Vercelli, degli Imperatori, tra i quali Federico
II di Svevia, dell’oligarchia bancaria di Asti, degli
Angiò, del Marchese del Monferrato.
Alla fine del secolo la città era tornata ai Savoia e,
precisamente, a Filippo d’Acaia.
L’estate comincia il 21 giugno, dicono gli astronomi; ma i
torinesi di una volta consideravano come inizio
della stagione estiva la festa di San Giovanni Battista,
Patrono di Torino, che coincideva nella tradizione
precristiana con il solstizio estivo.
A quella data si apriva per i magistrati il primo periodo di
vacanze, le ferie delle messi, che andavano fin
dopo il ferragosto; Torino era una città agricola e tutti i
cittadini, lasciate le occupazioni civili andavano alle
vigne della collina e alle cascine della campagna per i
raccolti; terminavano anche le scuole, per restar
chiuse fino ai Santi, il che faceva dire agli scolaretti, e
forse anche ai maestri,
"Mei San Gioan da sol, che
tuti
i San anssem" .
Così col 25 giugno la città si spopolava; ma il 23 e il 24
l’animazione era al colmo, perché per la festa del
patrono si mobilitava tutta la città e non solo: alla
popolazione urbana si aggiungevano molti contadini che
piovevano a Torino da tutte la campagne circostanti sin dalla
vigilia.
La maggior parte di questi forestieri si accampavano
semplicemente sulla piazza davanti al Duomo, in
rustiche baracche di rami e di frasche e si preparavano alla
festa ballando allegramente la
corenta,
alternando le danze con gagliarde bevute.
Mantener l’ordine in quel bailame non era cosa da poco; per
organizzare e dirigere la festa, i savi del
comune non mancavano di volenterosi collaboratori sin dal
Medio Evo.
C’era la società del popolo, detta più tardi di San Giovanni
Battista, che già nel 1339 , prendeva parte al
governo della città per mezzo dei suoi quattro rettori;
c’erano le corporazioni degli artigiani, e c’erano
soprattutto, quei sodalizi burleschi che erano i circoli di
allora; la società degli Asini e quella degli Scolari, e
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nel ‘400 la celebre Abbazia degli Stolti, che poté vantarsi
di contare tra i suoi monaci anche un principe
sabaudo, Filippo di Bressa. Vorrei soffermarmi un momento su
questa Abbazia ("Badia" in piemontese) degli
Stolti : con questi termini si chiamavano comunemente in
Piemonte, le associazioni giovanili. Queste Badie
presenti in tutto il Piemonte, secondo gli studi di G.C.Pola,
avevano il compito di regolare le feste,
organizzando balli, banchetti, mascherate, e il Carnevale. La
prima menzione esplicita di questa Badia a
Torino risale all’8 febbraio 1429; ricevevano piccoli aiuti
dal Comune e facevano raccolte di denaro e di
cibarie dai privati. Le entrate principali provenivano dalla
barriera agli sposi , specie dalla ciabra o
scampanata, ai vedovi che passavano alle nozze.
A Torino ogni cittadino abbiente doveva contribuire alle
spese della Badia, che non erano poche: i bottegai
pagavano un quarto di grosso all’anno per mantenere i
tamburini; i beccai fornivano una spalla di montone
per banchetti alle dame; gli speziali una torcia per
accompagnarli a casa; i ricchi un quarto di grosso per ogni
fiorino di dote delle figlie. Ai bovari e ai carrettieri era
fatto l’obbligo di trasportare gratuitamente rami verdi e
frasche per adornare vie e piazze; ai facchini ed alla gente
minuta l’incarico di spazzarle.
Dopo molti anni di fortuna, la società perdette importanza
per il prevalere di quella degli Archibugieri, di cui ci
occuperemo più avanti, il cui carattere più militare e meno
turbolento era certo più ben visto dal Principe.
Già nel 1564, il Re degli Archibugieri, ottenne un aiuto per
celebrare la festa di San Giovanni: a lui spetta di
ricevere i forestieri che venivano per il tiro al pappagallo.
Comunque le Badie resistettero molto più tempo in
Piemonte che a Torino: ebbe i suoi ultimi sprazzi di vita
accompagnando le nozze di Amedeo I con Cristina
di Francia, Madama Reale, ed accompagnarono i Sindaci quando
si accendevano i falò per la festa
patronale.
Altri protagonisti in quei giorni erano i lavoratori della
terra (vignolanti, mietitori, pastori ); poi i mestieri della
città (asinari, pescatori, manovali, fabbri, cordai,
falegnami, lanaioli, conciatori, sarti, mugnai, tessitori) , e
poi
le arti nobili (mercanti , speziali, albergatori).
Vi erano anche le confraternite delle parrocchie. Costoro
miravano innanzi tutto a divertirsi, ma intanto
davano una certa direzione, incanalavano la folla , portando
almeno una parvenza di ordine, assumevano
delle responsabilità; e il Comune , che ne traeva partito,
sapeva anche ricompensarli. Troviamo infatti ancora
nel 1590 "pagati scudi 6 ,da fiorini 9 l’uno al re
Tamburlando , (a capo di una di quelle società), per l’aiuto di
far la balloria".
La festa comprendeva tre parti principali:
1. la vigilia o veglia di San Giovanni;
2. la corsa del carro con benedizione e distribuzione di
cibarie nel mattino della festa;
3. divertimenti popolari nel pomeriggio.
IL FARO’. REMINISCENZA PAGANA TRA IL XIV E IL XIX SECOLO
La notte del 23 giugno tutta la gente si radunava a Torino,
nella Piazza di San Giovanni e trascorreva la
notte pregando e cantando inni in onore del Santo; come
commenta G.C. Pola,
"quella notte, la piazza
S.Giovanni presentava uno spettacolo veramente fantastico e
ricordava i numerosi ebrei che s’attendavano
nelle piazze di Gerusalemme alla festa dei Tabernacoli".
Dalle notizie che ci sono pervenute, sappiamo che il farò è
sempre stato eretto, fin dai tempi più remoti;
sappiamo con certezza che la catasta piramidale era innalzata
in Piazza Castello, all’altezza di Via Dora
Grossa, l’attuale via Garibaldi, solo più tardi verrà
spostata all’altezza di via Palazzo di Città: per mantenere
l’ordine vegliava tutta la notte il cavaliere del vicario con
alcuni donzelli d’armi.
In un documento del 30 maggio 1842 risulta che in questa data
erano stati esaminati gli Ordinati dall’anno
1325 al 1599, e si attestava che non si trovò una relazione
scritta della funzione del farò, ma erano sempre
notate le disposizioni prese ed ordini dati
dall’Amministrazione Civica per la festa.
Esaminando appunto i verbali
dal 1600 al 1800,
possiamo delineare i momenti principali di questa solennità:
nel corso dei secoli, notiamo che poco è cambiato.
Tutti i Decurioni della città, assieme ai Sindaci e alle
personalità più in vista di Torino, si riunivano in
serata nella Sala del Consiglio di Palazzo di Città:
qui appunto avveniva la
stesura dei verbali a noi
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pervenuti, e poi tutti si spostavano sotto i portici di
Piazza Castello, poco prima della mezzanotte. Qui, tra le
note intonate dalle bande musicali e i fuochi artificiali
fatti scoppiettare dalla gente pervenuta nelle ore
precedenti, si attendeva la mezzanotte: Sua Altezza si
affacciava con il suo seguito dal balcone di Palazzo
Madama e si assisteva finalmente all’incendio atteso tutto
l’anno.
Sappiamo anche con certezza che il farò veniva incendiato per
tradizione dal Primo Sindaco ,
e in sua
assenza, dal Secondo o dal Terzo. Tutto questo, salvo alcune
eccezioni, capitava che il Sovrano volesse
accendere in persona il fuoco, e sappiamo che qualche
Principe di casa Savoia, desiderò infuocare la
catasta.
Generalmente la torcia accesa veniva consegnata dall’Usciere
al Sindaco, che si apprestava ad incendiare
la catasta, dai quattro lati, e poi dava la torcia ad uno
Staffiere; prima dell’accensione, venivano sparati tre
colpi a salve, da reggimenti o da battaglioni.
Da un altro documento che porta la data del 10 giugno 1842,
sappiamo che anche quando i Reali non erano
in città, l’accensione del farò avveniva ugualmente, secondo
il solito rituale.
Abbiamo testimonianze del fatto che in caso di pioggia la
catasta non veniva incendiata, e dagli stessi
documenti possiamo capire che la decisione di non accendere
il fuoco, era presa all’ultimo momento,
quando proprio non se ne poteva fare a meno, e in questo caso
si donavano le fascine ai più bisognosi.
Alle fascine provvedevano gli uomini di Grugliasco ,
come dipendenti della città di Torino: tuttavia,
perché non mancasse una nota macabra, si aggiungevano al
rogo, capestri di impiccati dell’annata; si
mormorava però che vi fossero spesso delle contraffazioni,
perché Mastro Titta (il Boia), vendeva di
nascosto le corde che avevano realmente prestato servizio
sulla topia
e le sostituiva con lacci
qualunque.
I carboni e le ceneri venivano poi donati agli spazzacamini
che stavano vicino alla chiesa di San Lorenzo.
E come ogni festa che si rispetti, anche questa aveva il suo
re: Tamburlando.
Costui veniva eletto ogni
anno e a lui spettava di guidare la
balloria
intorno al farò, e, sempre dagli
Archivi della Città , risulta che
sempre nel 1590, gli furono dati 6 scudi da 9 fiorini l’uno:
ma che cos’è la balloria ?
E’ inutile cercare questa parola su un’enciclopedia: il suo
significato ci viene dato dal dizionario piemontese,
italiano, latino, francese composto dal Prete Casimiro Zalli
che dice: "fe la
baleuria dicesi di quell’ allegrezza
che facevano i ragazzi nella vigilia di San Giovanni,
saltando e girando attorno al falò di Piazza Castello di
Torino, e nel tripudio che pur anche si faceva nello stesso
giorno di San Giovanni, secondo la storia del
Pingono del 1577."
La notte trascorreva tra allegre danze e gogliardiche bevute:
si danzava attorno al farò, formando dei cerchi
con le persone che si tenevano per mano , guidate da re
Tamburlando: questa figura oggi può essere
paragonata a quella di
Gianduia
che guida i festeggiamenti la
vigilia di San Giovanni.
La festa di San Giovanni a Torino non rappresentava solo una
celebrazione al Battista ,ma era anche la
festa del Patrono della città e per questo motivo godeva di
un’importanza del tutto particolare.
Si può notare che il fatto stesso che furono messi a verbale
questi momenti denota che alla festa non
mancava quella solennità che oggi non potremmo nemmeno
immaginarci.
Il Farò è stata la cerimonia durata più a lungo, fino al
1853; l’anno successivo essa fu definitivamente abolita
ed i fondi all’uopo stanziati furono erogati in pubblica
beneficenza mediante distribuzione di pane ai poveri
della città.
Il farò è il momento centrale della festa di San Giovanni e
questo ci fa capire come un rito che ha origini
precristiane sia potuto vivere per così tanto tempo nella
tradizione di una città.
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LA CORSA DEL CARRO, LA PROCESSIONE, I GIOCHI
Il 24 di giugno, dopo aver trascorso una notte del tutto
particolare e ricca di suggestioni, cominciava per il
popolo del Medio Evo una giornata ancora ricca di colpi di
scena. Al mattino avveniva la funzione religiosa,
con la corsa del carro e la distribuzione di cibo sul sagrato
della chiesa.
Il carro avanzava scorrazzando a zigzag per le strette vie
della vecchia città, sobbalzando ad ogni giro di
ruota, minacciando continuamente di travolgere gli spettatori
o di ribaltare, finché al galoppo dei corsieri,
entrava in Duomo. Il Comune precisava che i buoi dovessero
danzare; quanto scompiglio portassero nel
vecchio Duomo, già mezzo runoso, quei ballerini a quattro
zampe, è facile immaginare.
Il Vescovo e i Canonici cercavano di opporsi e moltiplicavano
le proteste; ma invano. Ottennero poi, nel
1342, che il Comune vietasse quest’ultima fase della corsa;
ma il divieto dovette essere ben poco efficace se
un secolo e mezzo più tardi il Cardinale della Rovere,
facendo costruire in nuovo Duomo, ritenne più
prudente farlo precedere da un alta gradinata per impedire
materialmente l’accesso agli indesiderati ospiti.
Il carro era dipinto con colori molto vivaci ed era adornato
con fiori e spighe, questo era trainato da due buoi
aggiogati ricoperti da una festosa bardatura. Veniva trainato
e introdotto solennemente nella stessa
Cattedrale dai Massari, passando nella navata centrale, fino
al presbiterio, dove era esposto il Palio del
vincitore: sacchi di frumento, fiaschi di vino e pane.
Da ricordare è l’offerta dei ceri
che risale al
1188:
due canonici eletti li portavano in
Cattedrale, dove
venivano offerti a tutti i canonici di Torino. Nel 1300, per
volere dell’amministrazione Civica Torinese, le
coppie di sposi dell’anno, offrivano ceri e torce alla
Cattedrale. Nel 1977
quest’usanza venne ripresa
dall’Associassion Piemonteisa.
Con il passare del tempo, la corsa del carro si spostò nei
sobborghi della città: in Borgo Dora e nella zona di
Rivoli Moncalieri, Chieri, Grugliasco e Orbassano.
Alla funzione religiosa intervenivano il Corpo Decurionale,
composto dai sindaci vestiti in toga di velluto e
otto decurioni (quattro di prima classe e quattro di
seconda), una rappresentanza delle arti cittadine e
naturalmente il popolo. Si usava designare i nomi di coloro i
quali dovevano interpretare i personaggi della
commedie da recitarsi in occasione della festa e che
rappresentavano il padrone di casa, lo scrittore, il
mercante, il sarto, il macellaio, il taverniere, il
vignolante ecc., insomma tutte le categorie dei cittadini.
La funzione cominciava a metà mattina: all’Offertorio della
Messa Pontificale si presentavano i doni destinati
all’altare e quelli destinati alla popolazione. Il Vescovo
benediceva i doni e un Priore della festa si alzava sul
carro intonando un sonetto in onore di San Giovanni,
terminando con un gran salto in suo onore. Terminata
la messa i buoi venivano fatti uscire dalla chiesa passando
per le navate laterali, e una volta fuori, correvano
per le vie della città fra gli applausi della folla
esultante.
Usanza particolarissima di questa festa è il
dono della "Carità",
un pane benedetto condito con pepe e
zafferano, simbolo della semplicità ed umiltà della civiltà
contadina che veniva offerto a tutte le Autorità.
Una volta terminata la messa, ci si preparava alla
processione di San Giovanni:
questa coinvolgeva tutto il
popolo ed i personaggi più influenti della città con a capo
il Vescovo.
"Alla processione di San Giovanni, mandavano un grosso
torchio, le dame e i donzelli, i notai e i mercanti, i
sarti, i beccai, i tavarnieri, la Compagnia degli scuolari,
coloro che si facevano sposi in tempo prossimo alle
feste del Santo, gli uomini di Grugliasco, ed in breve,
ciascuna delle arti cittadine e campestri; e questi torchi
si conservavano poi nel duomo dinanzi all’altare del Santo".
La processione, che partiva dal Duomo, giungeva sotto i
portici del Palazzo Civico, recando l’urna con le
reliquie del Santo e, i due Mastri Ragionieri, sotto al
padiglione, offrivano mazzetti di fiori e limoni
all’Arcivescovo, ai Canonici, ai Beneficiati ed ai Cantori
ecclesiastici e secolari.
Nei primi anni del Novecento non fu più celebrata la
processione: la festa cadeva in giorno feriale e il traffico
e l’impossibilità dei fedeli di parteciparvi, ne impedirono
lo svolgimento.
Una volta terminata la processione,si passava ai divertimenti
più profani: il più diffuso era quello del palio dei
cavalli, che si correva tra la porta Marmorea e la chiesa di
San Sebastiano, percorso corrispondente press’a
poco ai primi due o tre isolati di via Arsenale.
> Ecco le note biografiche del Coro dei
Volontari di Torino2006
> L'Inno e il Coro dei Volontari di Noi2006
>
>
> Il Coro
>
> Il Coro di Noi2006 e' composto da giovani iscritti al
Programma Volontari dei XX Giochi Olimpici Invernali di Torino
2006.
>
> Nato nel mese di Dicembre del 2004, a seguito della creazione
dell'Inno che li rappresenta, "Voglio Esserci", il Coro di
Noi2006 rappresenta una novita' assoluta nella storia
delle Olimpiadi: si sono sentiti tanti Inni Sportivi, ma per la
prima volta nella Storia i Volontari Olimpici hanno creato
un Coro e una canzone per parlare del proprio entusiasmo e dei
valori in cui credono: il senso di squadra, il sorriso, la
festa, la voglia di collaborare per il raggiungimento di un
obiettivo comune, la solidarieta' e l'unione di intenti.
>
> Il Coro ha destato fin da subito l'entusiasmo e la curiosita'
di diverse realta', sia in ambito Olimpico che in ambito
Sociale. Molti giornali ne hanno parlato positivamente (La
Stampa, La Repubblica, Panorama). Ha inoltre partecipato a tre
grandi eventi :
>
> 30 Dicembre 2004 Serata di Gala conclusiva degli Europei di
Pattinaggio Artistico
> 15 Febbraio 2005 Festa dei primi 8000 Volontari, con Fiorello
(apertura della serata)
> 27 Maggio 2005 Concerto "3 giorni del Volontariato", P.zza
Castello
>
> Da alcuni mesi il coro dei Volontari collabora con il coro
Inno alla Gioia, ex Coro Rai, diventato ormai colonna portante
della qualita' musicale del coro stesso.
>
> L'Inno
>
> L'Inno dei Volontari di Noi2006 si intitola "Voglio Esserci"
ed e' stato composto da due collaboratori del Comitato di Torino
2006, Stefania Piovesan, cantautrice, e Nino La Piana,
compositore e arrangiatore.
> Il Coro sta registrando in studio (anche grazie al prezioso
apporto dei dipendenti del Comitato di nazionalita' diverse)
l'Inno cantato in 6 lingue diverse: oltre all'Italiano, in
Inglese, Francese, Spagnolo, Tedesco e Cinese. |